Italiani brava gente

Omar al-Mukhtar prigioniero degli italiani. Fotografia di pubblico dominio.
Omar al-Mukhtar prigioniero degli italiani. Fotografia di pubblico dominio.

La Guida della Rivoluzione scende dalla scaletta su suolo italiano, a Ciampino. Sono le ore tredici, è il dieci di giugno e ad attenderlo c’è il festante Berlusconi. Da buon colonnello, Muammar Gheddafi indossa una divisa militare con uno stillicidio di medaglie appuntate sul cuore. Gli svolazzi sulle spalline, gli occhiali da sole, il volto chirurgico ed i capelli unti danno un tocco rock alla sua immagine. Il ruolo auto-assegnatosi di pilastro della libertà arabo-africana è invece sottolineato da una fotografia in bianco e nero appesa di fianco alle medaglie.
È stata scattata quasi ottant’anni fa, nel settembre del 1931, e ritrae Omar al-Mukhtar, “Il leone del deserto”, la guida della resistenza libica anticoloniale, incatenato fra i suoi nemici, un gruppo di ufficiali italiani dalle mani giunte dietro la schiena in posa per essere immortalati.
Nato povero nella Cirenaica vassalla dell’Impero Turco, studiò il Corano, divenne Imam ed aderì alla confraternita dei Senussi. La sua vita cambiò però radicalmente nell’ottobre del 1911 quando in Italia il governo Giolitti decise che era ora di ampliare i confini del regno. Sulla costa meridionale del Mediterraneo spartita fra le grandi potenze il punto debole erano la Tripolitania e la Cirenaica, controllate da un Impero Turco ormai in declino. Il Regio Esercito, con l’appoggio della flotta che tagliò le vie di comunicazione nemiche, riuscì a conquistare in breve tempo la regione scarsamente difesa, lasciando l’entroterra e la regione del Fezzan in mano ai guerriglieri indigeni che, a partire dal 1923, furono guidati dal sessantatreenne al-Mukhtar. Il trattato di Losanna del 1912 confermò il passaggio di proprietà, a cui si opposero le popolazioni indigene.
Con l’avvento del Fascismo cambiò la politica italiana in Libia. Fino ad allora non era stato fatto granché per stroncare la ribellione, e la regione era effettivamente controllata solo a livello costiero. Nuove campagne militari allargarono il dominio fino alla conquista del Fezzan nel 1931, attuata dal governatore Badoglio e dal suo generale Graziani. L’esercito fu integrato con la cavalleria indigena e le sacche di resistenza furono debellate mediante la deportazione e la prigionia in campi di concentramento di decine di migliaia di civili accusati di appoggiare i guerriglieri. I beni dei Senussi furono confiscati, i loro villaggi incendiati, l’oasi di Cufra venne bombardata con degli aerei che usarono gas e armi chimiche, mentre i pozzi venivano avvelenati o cementificati e l’agricoltura devastata.

LArco dei Fileni, costruito da Italo Balbo al confine fra Tripolitania e Cirenaica. Immagine di pubblico dominio.
L'Arco dei Fileni, costruito da Italo Balbo al confine fra Tripolitania e Cirenaica. Immagine di pubblico dominio.

L’11 settembre 1931, rimasto con soli settecento uomini, “Il leone del deserto” venne avvistato dall’aviazione italiana. Ferito, fu catturato dai cavalieri libici e portato a Bengasi dove venne processato nel Palazzo Littorio. Un telegramma di Mussolini indirizzato ai giudici augurava una “immancabile condanna”, mentre il difensore d’ufficio, il capitano Lontano, venne arrestato per aver “interpretato scrupolosamente il suo ruolo”. Dopo soli quattro giorni la giustizia sommaria decretò la condanna a morte dell’imputato, eseguita il 16 settembre.
Pacificata la regione, iniziò la sua vera colonizzazione: nel 1934 venne proclamato il Governatorato Generale della Libia, coloni italiani occuparono le aree coltivabili mentre i locali ottennero lo status di “cittadini italiani libici”. Sotto il controllo del nuovo governatore, Italo Balbo, furono migliorate le infrastrutture e fu stabilito di portare il numero di coloni alla quota di mezzo milione entro gli anni sessanta. Il 9 gennaio 1939 la Libia divenne parte integrante della Grande Italia con il nome di Quarta Sponda. Fu la Seconda Guerra Mondiale ad interrompere i progetti egemonici nostrani.
Un trentennio di sfruttamento coloniale italiano aveva causato la morte di quasi un ottavo della popolazione indigena, fra 40 e 100 mila persone circa. Tribunali militari speciali avevano il compito di stroncare l’appoggio alla resistenza mediante rapidi processi che spesso decretavano l’immediata esecuzione dell’imputato. L’accusa più diffusa era quella di collaborazione con i ribelli. Le relazioni redatte all’epoca dagli ufficiali dell’esercito parlano di più di centomila persone deportate dai loro villaggi, di cui almeno un quarto morirono per sete o fame. Alcune fonti parlano dell’abbandono di alcuni deportati nel deserto, altre di mitragliamenti aerei. I campi di prigionia, pubblicizzati in Italia come luoghi dominati dall’igiene e dalla disciplina, in realtà erano privi di assistenza e contenevano soprattutto popolazione civile.

I crimini di guerra compiuti dagli Italiani in Libia restano impuniti grazie a ciò che accadde dopo l’8 settembre del 1943, alla “amnistia Togliatti” del 1946 e soprattutto grazie all’amnistia ed all’indulto del 1953 per tutti i reati politici compiuti entro il 18 giungo 1948. Badoglio e Graziani, i principali accusati, non furono mai processati, e nessun paese che aveva subito l’occupazione italiana riuscì ad ottenere l’estradizione dei nostri criminali di guerra.

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Articolo pubblicato su Nulla dies sine linea.

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