Se ti ritrovi alle due del mattino coricato sul divano a leggere un libro quando il giorno seguente ti dovrai svegliare alle sette e mezza per andare al lavoro, beh, allora quel libro davvero ti appassiona: questa è legge.
L’ultimo romanzo dei Wu Ming, Altai, l’ho atteso a lungo, l’ho fortemente desiderato, l’ho prenotato, l’ho pagato l’assurda cifra di €19.50 (che diavolo sta passando per la testa delle case editrici?), l’ho divorato nello scarso tempo a disposizione rinunciando ad ore di sano riposo e l’ho lasciato depositare. Risultato? Non è uno di quei libri che rileggerei, non è una di quelle opere che raccomanderei caldamente. Qualcosa non mi è andato giù, qualcosa è andato storto nella lettura.
L’attesa era grande: dopo dieci anni ecco il seguito di Q, un romanzo che ha venduto parecchio e che ha fatto epoca, che letto al momento giusto ti mette fuoco al culo (ma anche se letto in altri momenti: ad ogni rilettura, negli anni, l’effetto rimane immutato) e che tutti gli ammiratori volevano ritrovare. Fortunatamente non è stato così. Nonostante i Wu Ming avessero annunciato il ritorno al loro esordio, nonostante la fascetta pubblicitaria che avvolge il volume e nonostante gli acchiappa lettori scritti un po’ ovunque, dalla quarta di copertina al più minuto commento su Facebook, il libro c’entra veramente poco con il diretto antenato. E gli stessi autori lo hanno precisato a più riprese.
La distanza è segnata da aspetti banali e da altri più approfonditi: si va dal contesto geografico (dal centro Europa ci si sposta nel Mediterraneo Orientale) a quello storico (quindici anni dopo, dal periodo della riforma protestante all’Impero Ottomano pluriculturale dello scontro di civiltà con l’occidente); dai personaggi (da Q sono traghettati in Altai un vecchio Gert/Tiziano/Ismail, una defunta Donna Gracia ed un entusiasta Giuseppe Nasi) al loro peso (Ismail è una cornice di saggezza, ma sempre cornice è, mentre qui i veri protagonisti sono due: Emanuele de Zante/Manuel e, a ruota, Giuseppe Nasi); da una trama fitta, roboante, incalzante, ad una riflessiva, fatta di attese, di introspezione; da una scrittura viva, secca, sferzante, paratattica, ad una larga, avvolgente, descrittiva.
È un bene che Altai non sia una ridicola imitazione di Q: non avrebbe avuto senso, né dal punto di vista della dignità autoriale, né da quello del tempo trascorso. Quei dieci anni pesano, i Wu Ming li hanno vissuti alla grande, scrivendo altre storie, incontrando i lettori, lavorando sulla rete e redigendo memorandum sullo stato di una fetta della letteratura nostrana. Ne ero consapevole mentre strusciavo il bancomat in libreria, ne ero felice. Dopo 54, Manituana ed i romanzi solisti la strada non poteva avvolgersi su se stessa e tornare al principio. Tuttavia, alla fine, il confronto è stato inevitabile, e proprio per gli annunci degli autori e per le frasette commerciali che ci svelano un ritorno sul luogo del delitto.
Quello che mi ha fatto divorare Altai è la tensione verso il decollare degli eventi, l’attesa del botto, dell’azione incalzante. Quello che non me lo farà consigliare (che non vuol dire sconsigliare, s’intenda) è l’assenza di uno sfogo per questa tensione accumulata durante la lettura: all’ultima pagina si è ancora troppo carichi. Dopo un inizio col botto la vicenda rallenta, diviene pura introspezione e lotta interna, con sullo sfondo un Mediterraneo variegato, mescolato di religioni, culture, colori, spezie ed odori diversi. Poi, lentamente, la vicenda riprende il flusso della Storia, i protagonisti lottano di astuzia, di ingegno, di diplomazia per influenzarla, ma delegano il suo svolgersi pratico ad altri. Quando poi sono catapultati nel vivo dell’azione, è troppo tardi: sono ormai testimoni passivi, impotenti. Gli eventi li soverchiano, li avvolgono senza che essi possano più interferire con essi (salvare una vita è tutto quello che può fare Manuel a Famagosta, parole di Ismail). Il finale arriva con la vertigine della Storia che li ha ormai sopraffatti.
Il libro è rimasto comunque una buona lettura, nonostante la delusione da aspettativa, da mancato sfogo. Il mondo Turco-Veneziano-Marrano in cui le vicende sono calate è di un fascino irresistibile, e la sua descrizione è sensuale. I riferimenti al mondo di oggi sono continui, evidenti, sia per quanto riguarda la Storia recente (persecuzioni, Shoah, Israele-Palestina, Occidente-Islam…), sia per quanto riguarda le tematiche (il ritorno alle proprie origini, la globalizzazione, la differenziazione culturale, l’immigrazione, il sogno di uno stato utopico, la xenofobia e l’intolleranza religiosa): insomma, non c’è carenza di argomenti forti, e nel testo serpeggia una grande umanità.
Peccato per il ritmo placido: ma questa è sicuramente una scelta ricercata. Mentre Q è un romanzo storico di avventura, Altai è costruito sull’introspezione del protagonista assoluto, Manuel.
Quindi leggetelo, ve lo sconsiglio.
Ciao Davide, mi hanno segnalato la tua rece, l’ho letta, poi l’ho linkata e commentata in un commento qui:
http://www.wumingfoundation.com/italiano/Altai/?p=127
Grazie. Davvero. Fossero tutte così rispettose e sentite le critiche negative…
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esattamente quello che ho provato io.. non si arriva mai alla “botta” finale… che onore dà… wuming1 :)
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Ma non trovate che la “botta”, l’apice con sfogo finale – e purificatore – di tutta la tensione accumulata, sia in fondo un meccanismo prevedibile e consolatorio? La catarsi non può percorrere anche altre vie, meno scontate, in cui il lettore non viene sempre assecondato passo passo, accompagnato al guinzaglio fino a una specie di quiete post-orgasmica? Un libro può essere appagante anche con un finale aperto, in cui parte dell’energia continua a circolare, penso ad esempio a Hyperion di Dan Simmons… Non so se questo sia il caso di Altai, stiamo ricevendo opinioni molto diverse tra loro, alcuni parlano di una lapidaria “definitività” del finale, altri al contrario parlano di un finale rimasto sospeso. Abbiamo comunque detto più volte, nel corso di questi anni, che col tempo siamo arrivati a ritenere Q – e soprattutto il suo epilogo – troppo conciliante. Ecco, ad Altai si potranno applicare tanti aggetti, ma “conciliante” certamente no :)
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lo leggerò sicuramente, a breve
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Risposta rapida, fatta da un locale, quindi poco ragionata. La “botta” certo non è l’unica via, però suppongo tutto dipenda dalla “fase preparatoria”: insomma, la tensione montante mi portava ad aspettare una soluzione d’azione, sicuramente classica e prevedibile.
Credo comunque che il finale di Altai non sia molto aperto, ma neanche “appagante”. Quello che mi aspettavo in realtà non era il termine pirotecnico, quanto una catarsi da evento storico nel corso del romanzo. La sospensione penso sia più nel corpo che nel finale della narrazione.
Ma questa è ovviamente un’opinione del tutto personale, altri possono apprezzare maggiormente la vostra soluzione.
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La “sacra sindone” non è altro che un lenzulo con stampato “lautoritratto” di Leonardo Da Vinci.
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Mi sa, caro Maurizio, che questo tuo commento non sia riferito a questa recensione, bensì a un altro mio articolo: https://davidepicatto.wordpress.com/2010/04/16/sindone-reliquia-o-icona/
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