Dublino da bar

Guinness, fotografia di Diego Meggiolaro, Dublino, novembre 2011.

La Guinness sembra un oggetto solido, un blocco di basalto sormontato da un disco di calcare, il tutto servito in una pinta vera, quella imperiale inglese, da 0,56826125 litri, e non in una farlocca tipica dei pub italiani, la media da 0,4.
Quando te la passano da sopra al banco sembra che debba pesare una dozzina di chili. L’afferri, avvolgi con la mano il vetro freddo, lo fai tintinnare contro quello dei tuoi compagni di viaggio, dici sláinte (salute), porti il bicchiere alle labbra, lo inclini e all’improvviso ti accorgi che il contenuto è liquido, che la schiuma si scansa e che lascia passare la fresca, leggera e densa stout rosso rubino. Guai a definirla nera: guardatela controluce e correggete la vostra tabella cromatica.
Poso il boccale sul bancone di legno, mi pulisco la bocca dalla schiuma compatta con il dorso della mano e guardo soddisfatto Meggio, Luiza e il Verzì. Siamo appena arrivati a Dublino e questa è la nostra prima Guinness, bevuta nel pub che serve quella migliore di tutta l’Irlanda, e quindi del globo intero. Il barista, uno di quei tipici personaggi usciti da un film inglese anni novanta sulla working class, un irlandese tipico, basso, magro, gentile, dal viso affilato, gli occhi chiari e i capelli neri lisciati all’indietro, mi spiega i segreti per spillare la Guinness perfetta: spina a caduta, senza gas; pulizia accurata del dispositivo; suo utilizzo frequente; versare la stout fino a tre quarti della pinta; farla riposare per due minuti per far depositare il fondo e montare la schiuma; colmare il bicchiere fermandosi a filo d’orlo, senza versare una goccia. Andate al John Mulligan’s e non ve ne pentirete: aperto nel 1782, sembra essersi fermato in quel secolo con bancone e tavoli in legno consunto, grandi specchi opachi incorniciati alle pareti, sgabelli e panche. E sentite sentite, niente musica assordante: il pub è un luogo di ritrovo, di chiacchiericcio sommesso, dove scambiare qualche parola di fronte a una pinta prima di tornare a casa dopo il lavoro. Scordatevi quelle porcherie imitative insulse tutte italiane, con musica sparata a palla e cameriere che sculettano fra i tavoli.

Dentro O'Donoghue's. Fotografia di Diego Meggiolaro, Dublino, novembre 2011.

E questo è quello che inconsapevolmente stavamo cercando. Senza metterci d’accordo, fiutiamo i pub old style, quelli piccoli, sgangherati, senza stereo, che emanano un puzzo forte di birra rancida che è profumo per le nostre narici, quelli con il soffitto di legno basso, la luce che filtra morbida dalle finestre e l’atmosfera ovattata. Trascorriamo tre giorni tenendoci alla larga da Temple Bar, un imbuto costoso e sbarluccicante in cui confluiscono turisti e gruppi di addio al celibato/nubilato, un nugolo di vie strette affacciate sulla sponda meridionale del fiume Liffey solcate da donne svestite in novembre e da italiani con gli occhiali da sole a mezzanotte. Ci infiliamo a qualsiasi ora in qualsiasi buco sappia di covo della gente del quartiere, musica irlandese suonata dal vivo e Ottocento, purché non sia a Temple.
Il J. McNeills, un pub/negozio di strumenti musicali, è una di queste bettole. Ci spaparanziamo sulle panche imbottite con Guinness in mano e uno stufato irlandese dinanzi, il tutto con violini e arpe celtiche suonati nella saletta accanto.
Dall’altra parte della città incontriamo per caso l’O’Donoghue’s, il pub che lanciò i Dubliners negli anni ’60. All’uscita del museo archeologico, verso mezzogiorno, ci facciamo un paio di pinte bevute fra pareti ricoperte di fotografie in bianco e nero, articoli di giornale ingialliti e autografi di musicisti di un’altra era.
Uscendo dalle distillerie della Jameson (perché l’Irlanda non è solo Guinness e stout, ma anche whiskey, e guai se lo chiamate whisky: sostengono che il loro uisce beatha, l’acqua di vita, sia più antico dello scotch), scoviamo il Cobblestone, dove ci sediamo in mezzo ai musici e chiacchieriamo fra violini, banjo, chitarre e flauti con avventori a caso.
Al Brazen Head invece ceniamo per bene, con stufato e cheesecake, mentre l’O’Shea’s ci regala l’ultimo pasto prima della partenza: fish & chips e l’immancabile Guinness.
Because Guinness is Good For You.

Questo articolo è stato scritto per Nulla Dies Sine Linea.

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