Le belve è il penultimo romanzo di Don Winslow e sarà un futuro film di Oliver Stone: il regista statunitense ha battuto ogni record di velocità accaparrandosi i diritti sull’opera un millisecondo dopo la sua pubblicazione, nel 2010.
Il titolo originale, Savages, molto più azzeccato dell’incerta e sciocca traduzione italiana, è la parte più bella del romanzo. Potete accontentarvi di leggere la copertina: quello che sta fra questa e la quarta è una storia banale scritta male per 450 pagine. Grazie al cielo Winslow e editori hanno deciso di seguire la nuova moda deforestante dividendo il testo in 290 capitoli: nemmeno due pagine per ciascuno di essi, molti lunghi appena tre-quattro righe immerse nel deserto candido cartaceo. Risultato: si legge in fretta, quasi correndo, con un senso di urgenza e singhiozzo. Arrivati alla fine, ancora trafelati, ci si chiede: ma dove ha picchiato la testa Winslow?
Quest’anno ha scritto un altro romanzo, una spy story in salsa orientale, una sorta di all you can eat nippo-sino-vietnamita: Satori. È il prequel di Shibumi (Il ritorno delle gru per gli italici vittime del cambio-titolo), romanzo del 1979 di Trevanian, a cui intende rendere omaggio. Un insulto per qualsiasi lettore sano di mente. Non ho mai letto il libro ispirante, ma se è vero che quello di Winslow ne ricalca bene lo stile, me ne tengo alla larga.
Winslow: cosa gli sarà capitato? Si sarà montato la testa? Si sarà sgonfiato? A furia di ricevere elogi da un duro taciturno e scarno dispensatore di complimenti come Ellroy e di essere considerato il maestro del noir contemporaneo americano ha iniziato a prendersi qualche libertà, fino ad arrivare a pensare di avere il potere di pubblicare qualsiasi insulsaggine. Satori ci sta: un omaggio, un errore. Quando l’ho chiuso ho pensato: non importa, Le belve sarà senz’altro migliore. Le premesse c’erano: l’ambientazione geografica dei libri di successo di Winslow, la zona di San Diego e il confine con il Messico; il tema del traffico di stupefacenti fra i due vicini nordamericani, da lui ben trattato in precedenza, con impegno e intento di denuncia; il genere noir, che conosce a menadito.
Niente da fare: de Il potere del cane, L’inverno di Frankie Machine e La pattuglia dell’alba neanche l’ombra. È un romanzo veloce, tutto azione, con poca fase riflessiva e personaggi a malapena abbozzati, dove non si capisce bene quale sia il senso o la motivazione dell’opera. Lo stile è coraggioso, ma non si deve premiare il coraggio, bensì l’azione portata avanti con sprezzo del pericolo, e in questo caso abbiamo tanto coraggio per una pessima azione: la scrittura è secca, asciutta (e fin qui niente di strano), va a scatti, fatta di parole-frasi e di invenzioni neologistiche da linguaggio colloquiale fra tamarri. Ma soprattutto è priva in ogni sua parte del bello o di una seppur minima ricerca del bello. La cosa sarebbe ancora accettabile se usata per sottolineare un tema duro, pesante, ma qui il narcotraffico e la violenza a esso associata sono solo una scusa narrativa, non un cuore di denuncia.
Insomma, Le belve ha tutta l’aria di un libro da scrivere per vendere un nome diventato formidabile, con un goffo tentativo di nobilitazione dato da un uso nuovo della lingua e del formato grafico di impaginazione diverso dall’abituale. Qualcosa di dannatamente commerciale e di maledettamente fastidioso, soprattutto se prodotto da un autore a cui si era data fiducia.