Vedere l’ultimo film di Clint Eastwood avendo come guida l’Hoover di James Ellroy provoca un solo effetto: delusione.
L’Hoover della trilogia sulla storia sporca dell’America è un uomo solo, moralmente minato, ossessionato dalle intercettazioni ambientali e dalla raccolta di dossier sui personaggi pubblici, politici e potenzialmente avversi alla sua visione di uno stato forte e retto. Con i dati in suo possesso e lo strumento burocratico da lui messo in piedi, l’FBI, mantiene saldo il suo ruolo reazionario di difensore degli Stati Uniti a furia di ricatti, infiltrazioni e controspionaggio che poco hanno a che fare con la legalità che il suo ufficio dovrebbe garantire. Agisce nel pubblico e nella politica da dietro le quinte, e detta la Storia del suo paese per decenni.
Eastwood tocca questi temi, ma il fuoco di punta lo dirige sul personaggio privato, sull’Hoover dominato dalla madre, dalla sua omosessualità repressa, dalla sua smania di controllo, di imposizione della sicurezza, di protagonismo e dall’autocostruzione di un sé pubblico in grado di darlo alla Storia come una figura chiave e positiva degli States. Il film si svolge principalmente negli uffici da cui ha imperato, la scrivania il suo trono e gli schedari il suo scettro. Passano i decenni, scorrono i presidenti neoeletti in sfilata sotto alla sua finestra, cambiano i modelli di automobili, vengono arrestati criminali e deportati dissidenti politici. Hoover invecchia e Di Caprio viene ricoperto da un cerone d’anzianità tanto fasullo da essere imbarazzante per il truccatore.
48 anni di regno sono tanti da riassumere in poco più di due ore di film. La scelta dello sceneggiatore e del regista è particolare: grande spazio viene dato all’Hoover privato che detta le sue personalissime memorie, al suo rapporto con la segretaria e con l’agente Clyde Tolson, alla costituzione del Boureau e ai suoi primi due decenni di vita, all’attività anti-criminale e alla creazione di un sistema di indagine scientifico. Meno, molto meno, ai suoi intrallazzi politici, al gioco di ricatto nei confronti delle presidenze susseguitesi, all’ingerenza sui conflitti pubblici e sociali del dopoguerra, al suo ruolo sporco nella gestione degli scontri razziali che hanno segnato l’America di quegli anni.
Alla luce di Ellroy, il film di Eastwood è deludente perché preferisce l’uomo al personaggio storico. È deludente perché quei pochi appigli che J. Edgar ha in comune con l’Hoover di American Tabloid, Sei pezzi da mille e Il sangue è randagio mostrano come sarebbe potuto essere questo film se il politico fosse stato tratteggiato nel pubblico e non nel privato.