Giallo di Romagna

VentoSiberianoSabato 23 novembre a Bagnara di Romagna (RA) c’è stata la premiazione della IV edizione del concorso Giallo di Romagna.

Il tema di quest’anno è di quelli attuali: violenza sulle donne e femminicidio. Le opere, racconti brevi di genere giallo/noir, sono state valutate da una giuria presieduta dallo scrittore Massimo Padua.

La bestia, il mio racconto, si è piazzato secondo. Vincitrice è stata Mariagrazia Nemour con Vento siberiano, mentre Il dottore di Fabio Giannelli è arrivato terzo. Potete leggerli assieme agli altri selezionati acquistando l’antologia del premio che prende il nome dal racconto vincitore. Il ricavato sarà devoluto all’associazione Trama di Terre.

La bestia, di cui ho balbettato un estratto in pubblico durante la cerimonia, è un giallo classico: in mezzo a un campo di mais del ravennate viene ritrovato il corpo massacrato di una donna. Il commissario Luigi Ferli, un tipo che non riesce a non farsi coinvolgere, inizia le indagini per dare un’identità alla vittima e un nome al carnefice. Partendo da una statistica: il 54% dei femminicidi è opera del partner o dell’ex e solo nel 4% dei casi l’autore è uno sconosciuto. Ecco un brano del racconto:

Il commissario Luigi Ferli osservò l’ambulanza inghiottire la salma. Il mezzo partì, alzò un po’ di polvere, rallentò al termine della stradina e quindi scomparve a destra, solo il lampeggiante e la parte superiore della carrozzeria visibili oltre l’orizzonte di mais, in rapido allontanamento. Vide i colleghi chiudere il passaggio con il nastro e si voltò dalla parte opposta dove, oltre la barriera e sull’asfalto, si era radunata una piccola folla di curiosi venuti dal paese. Un carabiniere stava parlando a un gruppo di donne. Stavano in piedi e reggevano tutte una bicicletta.
Sbuffò per il caldo, slacciò il secondo bottone della camicia e tornò a osservare il luogo del ritrovamento. Ora, senza il corpo di mezzo, rimaneva in terra il lenzuolo lordo a coprire le piante devastate. La scientifica stava perlustrando l’area: rilievi, fotografie, campioni. Le piante di mais frusciavano, le tute candide brancolavano in quel verde torrido. Era sicuro, certo, che lì non avrebbero trovato niente. Ma anche questo è un dato, pensò. E comunque, mai lasciare nulla al caso.
Il PM finì di parlare con un tecnico e gli si fece incontro. Con la giacca e incravattato stava pagando l’estate a litri di sudore.
«Ferli, allora?»
«Ho avuto un malore» rispose lentamente.
«Non mi riferivo a quello.»
Poco prima, quando il corpo era stato sollevato e disteso nel sacco, aveva visto la terra ruotare sotto i piedi. L’aveva vista, con gli occhi, non sentita. Allora si era allontanato e temendo di vomitare era risalito sulla strada. Si era appoggiato all’ambulanza, si era slacciato la cravatta, se l’era sfilata e l’aveva messa in tasca piegandola con cura, giusto per darsi qualcosa da fare e riacquistare il controllo di sé.
«Non è la prima volta che vede un cadavere, o sbaglio?»
«È il primo ridotto in queste condizioni.»

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Uccise perché erano donne

GdRUn mio racconto, La bestia, è stato selezionato fra i tre finalisti della IV^ edizione del concorso Giallo di Romagna.

Il premio, indetto dal comune di Bagnara di Romagna (RA), è riservato a gialli brevi che abbiano come tema centrale la violenza sulle donne. Per quanto mi riguarda, è riuscito a estrapolare dal mio cilindro un racconto dopo oltre un anno di silenzio e cappelli vuoti. Non solo, mi ha anche fatto rifluire sangue nella maltrattata vena creativa ributtandomi in pista. Presto, volenti o nolenti, vedrete apparire altre mie nuove opere.

Intanto La bestia verrà pubblicato assieme ai compari finalisti e ad altri prodi in un’antologia celebrativa.

La premiazione avverrà sabato 23 novembre 2013 alle ore 17.00 nella Sala Consiliare della Rocca Sforzesca di Bagnara di Romagna, piazza IV Novembre. A quanto pare ci sarò anch’io, a dar prova di lettura in pubblico e a fare a cazzotti con l’imbarazzo. Chi fosse da quelle parti, si faccia vivo: prometto grandi figuracce e un paio di giri al bar.

Django

DjangoStorie. Anni fa lessi un articolo sul Festival cinematografico di Cannes in cui il giornalista raccontava di come Quentin Tarantino, presidente della giuria, seguisse in maniera appassionata anche quelle proiezioni disertate da chi il biglietto lo prende in omaggio. Mentre i colleghi solcavano le passerelle o sorseggiavano champagne con marmaglia vip in tiro, lui affondava il sedere nelle poltrone di sale vuote ad applaudire pellicole di autori sconosciuti. In alcune persone il piacere di godere una storia si fonde con il piacere di narrarla. Non sempre le due passioni si incontrano, ma quando capita il risultato è uno solo: narrazione pura. Tarantino è una di queste persone. Django Unchained è uno di questi risultati. Quasi tre ore di film e non accorgersene. 165 minuti e volerne ancora.

Spaghetti western. Chi non ne ha visto uno? Quelli della mia generazione sono cresciuti con questi film. Da bambini giocavamo ai cowboy e a carnevale indossavamo cappello e cinturone. Ma non imitavamo gli eroi di John Ford, bensì quelli di Sergio Leone. Fischiettando Trinità. Anche Tarantino a quanto pare si è goduto questi filmetti e, rimestando nella sua cinefelica collezione di b-movies italiani, ha tirato fuori dalla macchina da presa questo fantastico omaggio al genere. Non so come uscirete dal cinema voi, ma io ho solcato le strade buie di un’Alba innevata facendo tintinnare gli speroni, con le vesti spruzzate di sangue e la voglia di tornare indietro e rivedermi tutto dall’inizio. Un’altra volta e subito. Nonostante le critiche ricevute da destra e sinistra, da chi vede preso troppo alla leggera lo schiavismo, da chi ritiene Tarantino un plagiatore e da chi vorrebbe le quote rosa pure sul grande schermo.

kkkVendetta privata. Anche se in principio il motore della vicenda è la ricerca della bella perduta, il nocciolo della trama di Django è, come in Bastardi senza gloria, la vendetta. Anzi, la duplice vendetta: in entrambi i film non sono solo i personaggi a vendicare i torti subiti, ma anche lo spettatore si toglie qualche sassolino dalla scarpa tramite la finzione. Lì uccidiamo nazisti, gerarchi e, dato che ci siamo, pure Hitler. Qui schiavisti e negrieri. A differenza dei bastardi però l’odio di Django non è dovuto principalmente ai torti subiti dalla sua gente, gli schiavi di colore, bensì alle violenze che ha patito personalmente, a quelle ricevute dalla moglie e alla morte del dottor Schultz. La fine catartica perciò non risulta in una rivolta razziale, ma in una vendetta del tutto privata: gli altri schiavi non si ribellano, non imbracciano le armi e si limitano a fuggire. A differenza di Bastardi senza gloria, qui la Storia non viene violentata dal film: l’azione si svolge nel 1858, tre anni prima dello scoppio della Guerra Civile Americana, e lo schiavismo non è cancellato prima dei tempi da Tarantino. Solo verso la fine l’orgoglio che illumina lo sguardo dello schiavo che vede Django ammazzare i mercanti e andarsene cavalcando a pelo ammicca ai decenni di lotte contro la segregazione razziale che caratterizzeranno l’America del Novecento. Da una parte Tarantino si “permette” di uccidere Hitler anzitempo, dall’altra rispetta un secolo di attivismo per la diffusione dei diritti civili. E si concede solo un lusso: sbeffeggiare il nascente Ku Klux Klan e le teorie razziali ridicolizzando il loro simbolo, il candido cappuccio.

spaghettiPer un pugno di citazioni. Molti apprezzeranno Django per la mole smisurata di citazioni e omaggi cinematografici, e altri lo detesteranno proprio per questo, accusando il regista di essere il solito copione privo di fantasia. È un’ode al genere dello spaghetti western e a una moltitudine di b-movies italiani, ma non solo. Inutile fare un elenco dei rimandi: si va dal banale (il primo Django, Sergio Leone, Trinità) al minuzioso (Sentieri Selvaggi e tutta la caterva di produzioni targate Sergio Corbucci). La cinefilia è il marchio di fabbrica di Tarantino, e forse non è mai stata così evidente come in questo film. Brandelli di trama, scene, personaggi, dettagli, oggetti, nomi, brani della colonna sonora: sembra un copia-incolla. Di grande qualità però, e di smisurata freschezza: non vengono presentate teorie di stanchi cliché e banali meccanismi del cinema di genere, ma una loro summa ragionata, il meglio di. E se l’arte non è pura innovazione ma genio creativo basato sul duro lavoro sui modelli, Tarantino è l’Omero, il Michelangelo e il Wagner del cinema. E poi: è dannatamente migliore di gran parte degli illustri antenati (Leone escluso).

BroomhildaLa principessa nella torre. A qualche critico non è andata giù la visione della donna nel film. In effetti la sposa di Django è la banale principessa rinchiusa nella torre e tenuta prigioniera dal drago che solo il principe azzurro riuscirà a liberare. Il film, a ben vedere, è proprio questo: la storia dell’eroe che sfida ogni pericolo per ricongiungersi con la sua bella. Aspettate un attimo, dove l’ho già sentita questa storia? Ah sì, proprio in Django. Quando l’eroe è libero di scegliersi la veste, ne sceglie una da principe azzurro. Il nome della bella è Broomhilda, che rimanda alla valchiria della letteratura nordica e a L’anello del Nibelungo di Wagner in cui è Sigfrido, l’eroe, che dopo aver superato difficili prove conquista l’amata. E guarda caso proprio il tedesco Schultz nota la similitudine delle due vicende e racconta a Django di Sigfrido. Davanti al focolare. Storie intorno al fuoco.
Un film non può contenere tutti i temi e le istanze del mondo, e Tarantino fa una scelta. Butta al macero il femminismo perché non c’entra con la vicenda, e lo fa ironizzando sulla sua scelta presentando il personaggio femminile principale come la Bella Addormentata. Una macchietta. Perché non è quello il punto. E chi non lo capisce, ahimè, lo attaccherà e continuerà a farlo senza riuscire a lasciarsi andare.

Fidatevi di me: andate a vederlo e abbandonatevi. Fatevi cullare dalla storia.