Point Lenana

point_lenana_coverCon un ritardo di quasi due anni mi sono immerso in Point Lenana, scritto da Wu Ming 1 e Roberto Santachiara. Una bazzecola in confronto al tempo trascorso dalla pubblicazione di Fuga sul Kenya, il libro che lo ha ispirato.

Tutto ruota intorno alla figura di Felice Benuzzi, un diplomatico triestino appassionato di alpinismo che, durante la Seconda Guerra Mondiale, fu funzionario coloniale dell’AOI. Fatto prigioniero dagli inglesi dopo la conquista dell’Etiopia, venne trasferito nel campo di Nanyuki, all’ombra del Monte Kenya. Fuggito assieme a due compagni, Giovanni Balletto e Vincenzo Barsotti, conquistò la Point Lenana, 4985 metri, e dopo diciassette giorni di libertà si riconsegnò al campo di prigionia. Nell’immediato dopoguerra scrisse un racconto autobiografico sull’avventura che, mentre passò quasi inosservato in Italia, in America divenne un classico della letteratura di alpinismo: No Picnic on Mount Kenya.

No_Picnic_on_Mount_Kenya_-_cover_50Sessantuno anni dopo la prima edizione italiana Roberto Santachiara, anch’egli appassionato di alpinismo, spedisce il libro a Wu Ming 1, che invece di montagna è (o meglio, era) del tutto a digiuno. Nel 2010, i due, stregati dall’impresa, volano in Kenya e ripetono l’ascesa di Benuzzi, e negli anni successivi svolgono un massiccio lavoro di indagine, documentazione e scrittura che nel 2013 ha portato alla pubblicazione di Point Lenana.

A primo avviso il loro potrebbe sembrare un libro su un libro, o peggio, un remake. Però basta conoscere l’opera dei Wu Ming (e del loro agente, Roberto Santachiara per l’appunto) per essere sicuri del contrario: già l’annunciato seguito di Q, Altai, del seguito aveva solo l’ambientazione cronologica, al punto di rischiare di deludere gli incauti entusiasti dell’esordio dei nostri bolognesi. E Point Lenana ha in comune con Fuga sul Kenya due sole cose: Felice Benuzzi e la montagna. Due perni intorno ai quali ruotano cento anni di Storia (per rendervi conto di quanto è denso il testo, date un’occhiata alla pagina di Pinterest con i contenuti extra al libro).

È un libro strano Point Lenana. Se vi aspettate un romanzo, un saggio storico, una biografia, un libro di avventure, un testo di storia dell’alpinismo sarete delusi. E se vi aspettate un romanzo, un saggio storico, una biografia, un libro di avventure, un testo di storia dell’alpinismo sarete soddisfatti. I Wu Ming lo definiscono un UNO, un Unidentified Narrative Object, un oggetto narrativo non identificato. Un ibrido.

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Rodolfo Graziani, vicerè d’Etiopia

È un libro corale, che parla di un intero paese e di un secolo. Ha un respiro vastissimo. Con la scusa del tratteggio della biografia di Benuzzi si attraversa il Novecento italiano ficcando il naso in questioni scomode che, se non taciute, normalmente ci sono state narrate edulcorate. Qui invece queste vicende prendono massa, corpo e carne grazie all’ampia documentazione spulciata e riportata dagli autori e al continuo intersecarsi con la Storia della vita di Felice e della miriade di altri personaggi reali che costellano il testo. L’irredentismo triestino, le turbolenze di confine con l’ex Jugoslavia, la vocazione nostrana all’imperialismo, l’adesione soffocante di un paese intero al fascismo, la guerra in Africa, le colonie, le stragi di civili, i primi bombardamenti aerei, l’uso dei gas, la propaganda e seicento pagine di un vortice storico intorno a quell’asse: la scalata al monte Kenya del 1943.

impero_colonialeLeggendo si vive aggrappati alla roccia delle Alpi Giulie, in una Trieste scissa fra una nostalgia di Impero (Austroungarico) e una propaganda nazionalista (Italiana), in una Roma prebellica, nel caldo polveroso coloniale e in una allucinante burocrazia di ordini telegrafati di morte e distruzione. Leggendo si entra nella Storia, la nostra, si storce il naso, ci si scandalizza e ci si stupisce. Leggendo si finisce con il rivalutare non solo il nostro passato, ma soprattutto il modo in cui ci è stato raccontato in un decennio di scuola dell’obbligo. Cioè zuccherato all’eccesso, impiastricciato di saccarosio per renderlo malleabile e rimodellabile al punto di plasmarlo in qualcosa di irriconoscibile, una melensa scultura revisionista di italiani brava gente.

Point Lenana non è un libro da pasticceria: è un libro sincero, di fatti nudi, mai ipotizzati ma sempre ampiamente testimoniati e documentati. È un pugno diretto allo stomaco di un paese che ha del suo passato una memoria costellata da bonaccioni ingenui e pasticcioni, dilettanti di provincia allo sbaraglio in un mondo tritasassi. È un libro da leggere, soprattutto se di Badoglio sapete che è quello dell’armistizio. In più ha il vantaggio di farci sprofondare nei contesti descritti con una scrittura limpida. Non ci si stacca facilmente dalle sue seicento pagine, le si divora: se programmate un viaggio, non portate con voi Point Lenana: portatevi Point Lenana e un altro libro, perché questo lo finirete prima del ritorno, fra treno aereo sala d’aspetto e letto d’albergo.

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Joseph Losey

Il 30° Torino Film Festival è partito fra le polemiche. Da una parte Ken Loach che ha deciso, con grande coerenza, di non ritirare il premio Gran Torino per solidarietà nei confronti di un lavoratore della Mole licenziato. Dall’altra Ettore Scola che ritiene esagerata la sua posizione, soprattutto nei confronti di una rassegna da sempre ritenuta di valore e fuori dal mainstream di Venezia, Cannes e compagnia bella. In mezzo il Festival e la sua qualità.

Io, che non sono Gianni Amelio, Ken “il Rosso” o Ettore Scola, pur essendo solidale con la protesta, me ne posso fregare altamente, e decido di affondare il sedere in poltrona lasciandomi cullare dalle storie presentate. Parto in ritardo, seconda giornata, e parto con Joseph Losey (1909-1984), regista americano che studiò con Bertold Brecht in Germania, si fece strada a Hollywood come autore impegnato e che infine, in odore di comunismo e braccato in patria dalla commissione McCarthy, si auto-esiliò in Inghilterra. In Europa fece una vitaccia, costretto dalla censura a firmare i suoi lavori con il nome del figlio di un padrone degli studi, di un produttore e di una bisnonna. Quando terminò la persecuzione nei suoi confronti, riprese la sua identità artistica e sfoderò, fra gli altri film, alcuni capolavori del genere noir.

Il primo che vedo, nella minuscola sala 4 del cinema Reposi vibrante a ogni tram di passaggio in strada, è un film magnifico ambientato durante la Prima Guerra Mondiale: King & Country (Per il re e per la patria, 1964), girato nel Regno Unito. Ambientato nelle fangose trincee a un passo dal fronte, in un ambiente cupo, claustrofobico, dominato dal ruggito dei cannoni e dalla pioggia eterna, è un film sulla guerra e la sua disumanità senza nemmeno una scena di battaglia. Solo brevi immagini di morti nel fango. Un paio di esplosioni iniziali scollegate dal fluire narrativo. Gli assalti alla baionetta relegati alla ripresa di apertura dei bassorilievi scolpiti sul monumento ai caduti a Londra. La vicenda è giudiziaria: un soldato veterano, al terzo anno di fronte, accusato di diserzione, deve affrontare la corte marziale. Il suo difensore, un ufficiale, dovrà scontrarsi con la disumanizzazione imposta dalla guerra, dalla legge e dal “bene comune”. Ricorda Orizzonti di gloria di Kubrick per il tema trattato e i romanzi Niente di nuovo sul fronte occidentale (Remarque) per l’ambientazione cupa e assurda e Addio alle armi (Hemingway) per la “pace separata” con il nemico.

Il secondo risale invece al periodo hollywoodiano: The Prowler (Sciacalli nell’ombra, 1951), un noir ambientato nella Los Angeles del 1918. A vederlo oggi dice poco (apparentemente): pensarlo nell’America maccartista cambia le cose. Il prowler, il “malintenzionato” del titolo, non è un criminale di bassa lega, ma un poliziotto che aspira a un futuro meschino in confronto al piano e agli inganni perpetrati per ottenerlo: una bionda, una Cadillac e la proprietà di un motel. Un tutore dell’ordine, tipico statunitense medio per provenienza e desideri, è il cattivo. Un pugno nello stomaco al sogno a stelle e strisce e al benpensare dell’epoca. Peccato solo per la sala, la n°5 del Reposi, in cui alle vibrazioni tranviarie si aggiunge un difetto maggiore, lo schermo dei sottotitoli posto ad altezza zero nascosto dalle teste delle file davanti. Un problema grave per un film basato sul dialogato in cui il protagonista parla un americano stretto condito da slang.

Cromwell arms

Statua di Oliver Cromwell, Palazzo di Westminster, Londra. Fotografia di E. Brown, CC 2.0.

A Londra, davanti al palazzo di Westminster, sorge una statua di Oliver Cromwell, l’uomo che difese il parlamento inglese contro l’autoritarismo di Carlo I. Grande condottiero, tattico e organizzatore di eserciti, è stato l’unificatore delle isole britanniche. Amato dagli inglesi, dai protestanti e dai repubblicani, è odiato dagli irlandesi, dai cattolici e dai monarchici.
Con la spada in mano, sembra proteggere la House of Lords e la House of Commons. Ma fu egli stesso che nel 1653, dopo aver guidato i

continua