Pinguini che scivolano verso i flutti dell’Antartico, iguane natanti, elefanti in carica, masse di mammiferi migranti e gorilla ieratici. Sperdute valli dell’Alaska, montagne tronche venezuelane, vulcani, deserti e lande di ghiaccio. Piante aggrappate alla terra, foreste gonfie di verde e cactus che colonizzano lava fresca di eruzione. E poi tribù di cowboys siberiani che dalle slitte conducono mandrie di renne attraverso la Kamchatka, case indonesiane costruite su alberi alti decine di metri, indigeni con astucci penici, dischi labiali e scarificazioni.
E oltre a queste, altre decine di fotografie scattate negli angoli più incontaminati del globo per documentare la bellezza del pianeta terra, una natura
ancora non infettata dal “progresso” e gruppi umani che vivono al passo delle loro tradizioni primeve.
Un lavoro straordinario, epico: Genesis.
Sebastião Salgado, classe 1944, foto-documentarista brasiliano che ha militato per la Magnum e che ora si autopromuove con l’agenzia Amazonas Images fondata con la moglie, Lélia, ha impiegato otto anni per ottenere questi scatti, dal 2004 al 2012. Un progetto a lungo termine che lo ha portato a vivere a stretto contatto con gli ecosistemi e le società umane documentate. Perché, come sostiene egli stesso,
non c’è nessuna differenza nel fotografare un pellicano o un albatros e nel fotografare un essere umano. Devi prestare loro attenzione, spendere tempo con loro, rispettare il loro territorio.
Un marchio di fabbrica di Salgado quello del tempo speso dietro ai suoi lavori: sette anni per Workers (1992), sei per Migrations (1999). Marchio che si aggiunge a quelli della scala globale dei temi trattati e dell’uso scultoreo del bianco e nero nel creare quella grandiosità epica che coinvolge direttamente il pubblico.
Davanti alle duecento foto di Genesis non si può rimanere impassibili. Mi sono imbattuto nella mostra per caso, a Stoccolma, visitando il Fotografiska, del tutto impreparato e all’oscuro della sua esistenza nonostante sia esposta anche al Palazzo della Ragione di Milano (fino al 2 novembre 2014) e abbia messo piede in mezzo mondo (Londra, Parigi, Toronto, Belo Horizonte, Singapore, Roma…). Il percorso è diviso in cinque sezioni: Il Pianeta Sud, I Santuari della Natura, l’Africa, Il grande Nord, l’Amazzonia e il Pantanàl. E di ogni luogo, ogni immagine attrae e cattura scatenando stupore per la bellezza dei paesaggi, curiosità per le società resistenti alla cultura globale ed empatia per il regno animale sopravvivente alla domesticazione.
Genesis mostra un pianeta che nonostante tutto riserva ancora spazio per le sue origini. La grandiosità della natura e i gruppi umani che la abitano avvolti da essa mostrano la caducità della nostra specie, il nostro essere un granello di polvere, un elemento del paesaggio, un attimo breve del fluire del tempo: parte della natura e non il fine di essa. Gli scatti stuzzicando lo stupore allontanano l’uomo dal centro dell’universo, ad alta velocità centrifuga lo rilegano ai margini.
Ma è lo stesso stupore che fa poi precipitare l’uomo al centro: se le fotografie ci colpiscono è perché non siamo abituati a queste visioni di animali selvatici, natura incontaminata e società primordiali. Sono il grandioso, il bizzarro, l’esotico a catturarci. Il pinguino ci fa simpatia perché è un animale “strano”, le isole Sandwich ci affascinano perché non sono asfaltate, la donna Mursi ci tormenta perché “come diavolo fa a stare con quel piatto in bocca?”. Non siamo abituati a tutto questo perché tutto questo è raro. Ed è raro perché stiamo distruggendo il mondo primordiale, il principio, la genesi. Ma non tutto è perduto: la natura, sebbene defilata, sopravvive. Siamo ancora in tempo per salvarla.
È questo il messaggio potente di Genesis: il sistema sta collassando per colpa nostra ma possiamo impedirlo. Dobbiamo intervenire, dobbiamo agire.
Amazon Images | www.amazonasimages.com