Public enemy

Questo articolo è stato pubblicato dalla rivista web Nulla dies sine linea.

Obama durante una riunione operativa precedente alla missione contro Osama bin Laden, 1° maggio 2011. Immagine di dominio pubblico.

Vivo o morto. Morto.
Nove anni e mezzo di caccia, più un’altra decina precedenti all’11 Settembre. Il nemico pubblico numero uno degli States, ex alleato in chiave antisovietica, è stato preso. Ucciso. Giustiziato.
Quel gran cowboy di George Bush aveva giurato vendetta e Obama, premio nobel per la pace, l’ha servita, a freddo. Ci sono voluti una quindicina di Navy Seals per abbattere il mostro cattivo, carceri illegali con torture legalizzate, centinaia di arresti arbitrari, milioni di violazioni di diritti civili, un lavoro di intelligence planetario, bombardamenti di droni, due guerre e migliaia di civili annichiliti, maciullati, sventrati, cancellati. Ma alla fine la giustizia ha trionfato.
Si chiude il primo decennio del nuovo millennio con un cadavere gettato in mare da una nave da guerra a stelle e strisce, la Uss Carl Vinson, cerimonia funebre in puro stile islamico, garantito. Per i dubbiosi nessun problema: da qualche parte ci sono set fotografici con un corpo straziato e analisi al DNA a provare la morte certa di Osama bin Laden. Il cadavere no, quello nessun paese al mondo lo vuole: se lo è preso il mare.
Ci avevano provato in ogni modo a catturarlo, fin dall’inizio. Le macerie del World Trade Center ancora fumavano e già l’America aveva additato l’autore dell’attentato più televisivo della storia. Senza prove né rivendicazioni. Queste sono arrivate un mese dopo il discorso di Bush dal mucchio in rovina del capitalismo occidentale: abbracciato a un pompiere il presidente aveva appeso alla bacheca mondiale un cartello “wanted” in puro stile texano. Il 7 ottobre la risposta: un video rozzo, uno sfondo roccioso e un uomo barbuto in mimetica con un kalashnikov di fianco che sfidava l’occidente.
E lo jihad si è scatenato: Bali, Islamabad, Madrid, Londra, Mumbai, Baghdad, Kabul. Attacchi dinamitardi, autobombe, kamikaze, treni esplosi, AK-47 scoppiettanti. Il terrore nel cuore dell’Europa, dell’Indonesia, dell’India. E nei paesi già impegnati con un altro genere di terrore, quello da guerra, da bombe intelligenti, da mezzi corazzati e giovani imberbi Yankees dal grilletto facile.

Times Square, New York, 2 maggio 2011: festeggiamenti per la morte di Osama bin Laden. Fotografia di Josh Pesavento, CC 2.0.

Di tutto è stato fatto per stanarlo, ma Osama è stato imprendibile. Nascosto a Tora Bora, nel dicembre del 2001 i bombardieri americani hanno raso al suolo intere montagne per fargli fare la fine del topo nella sua grotta. Tagliamargherite le chiamavano le bombe usate, quelle create apposta per risucchiare l’aria da cunicoli, caverne e anfratti e schiacciare lo scarafaggio jihadista. Invano. Fuggito chissà dove, in Pakistan, Waziristan, Afghanistan, *stan, il numero uno della lista dei cattivi della FBI ha continuato a ispirare terroristi e organizzazioni malvagie di ogni sorta grazie al solo esempio. E ora?
Già si annunciano ritorsioni, vendette, azioni dimostrative. Si teme che Abbottabad, sperduto villaggio a sessanta chilometri da Islamabad, diventi una città santuario meta di pellegrinaggio per il suo cittadino morto più illustre. Si teme la tomba di Osama, e quindi non gli è stata concessa. Si teme il suo fantasma.
Il terrore non è stato fermato dalla guerra. Non è servito sbandierare il cadavere di Saddam per placare i suoi seguaci e non si è nemmeno tentato di farlo con il suo temutissimo non-alleato. Non servono le azioni degli incursori, i droni, i missili Tomahawk, lo sfascio dell’Iraq. L’odio chiama odio, la vendetta vendetta. Il terrore di stato feconda il terrore non governativo. L’incubo tecnologico stuzzica l’incubo al tritolo. Il pilota superaddestrato svezza il pischello indottrinato pronto a immolarsi.
Osama bin Laden è stato ucciso, gli USA hanno avuto la loro vendetta, la grande democrazia che prevede il rispetto della legge e un giusto processo il suo ennesimo stupro e il mondo continuerà a essere identico a prima, con qualche lieve differenza: già si parla di trattative con i Taliban. Peste e corna: un tempo quei barbuti bacchettoni abbattitori di aquiloni nemmeno li si poteva citare, ora forse gli si garantisce una presenza massiccia nel governo afgano, con il beneplacito degli arcinemici.
Strani giorni ci attendono: cosa accadrà senza il Grande Nemico? È vero, non è che negli ultimi anni lo si sia sentito parlare più di tanto e in molti lo davano (e continuano a darlo) come già morto. Ma ora, ora che ci viene detto che è sicuramente passato a miglior vita, che è finita, che il Bene ha vinto, cosa ne sarà di noi? Chi darà risalto alla nostra civiltà con le sue nefandezze?

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